Vincenzo Picone porta in scena un protagonista esemplare di questa generazione, che in Europa, in parte, è individuata dalla definizione NEET – Not (engaged) in Education, Employment or Training (cioè che non studia, non lavora e non fa formazione).
Nel fenomeno sociale che in Giappone è conosciuto con il nome hikikomori rientrano tutti quei soggetti, per lo più maschi adolescenti, che rifiutano ogni tipo di rapporto con il mondo esterno: la società diventa loro completamente estranea. Chiusi nella loro stanza per mesi, anni in alcuni casi, si abbandonano alla non-azione perpetua vivendo in completo isolamento e abbandono. Hikikomori è anche il nome dei suoi protagonisti e in Giappone la parola è ormai di uso comune a indicare i momenti in cui ci si deve chiudere nella propria solitudine e si vuole, o deve, lasciare il mondo e la società. Questa condizione riflette tutta l’alienazione socio-culturale di una società in cui spesso i vincoli sociali e famigliari hanno la meglio sulla libera espressione individuale, in cui la competizione e le pressioni per la realizzazione personale sono fortissime e in cui la tecnologia ha il potere di bypassare ogni forma diretta di relazione: Hikikomori è dunque un tipico prodotto giapponese ma è anche in realtà un fenomeno universale, che coinvolge nel mondo, con modalità diverse, milioni di giovani.
Nel chiuso asfittico della propria stanza, come in un nido/prigione, H. il protagonista, come molti ragazzi suoi coetanei, si abbandona alla non-azione perpetua; l’unico trait d’union con il mondo esterno, negato e rifiutato, è internet, in cui ricostruire le relazioni e far vivere il proprio alter-ego. «Il giovane H. diventa metafora di un’intera generazione, quella delle passioni tristi, accusata di aver perso o di non aver mai avuto degli ideali», dice Vincenzo Picone, regista dello spettacolo, «incapace di agire nel mondo e identificata, spesso, come una massa informe, dallo sguardo vuoto e inespressivo. È lo sguardo dei giovani di oggi, che cela uno specchio in cui siamo obbligati a rifletterci. Il rinnegare il mondo esterno chiudendosi nel buio di una stanza diventa un atto estremo di resistenza attraverso l’unica arma rimasta a disposizione, il proprio corpo. È così che H., nella sua debolezza e fragilità, rappresenta un esempio significativo per i nostri tempi liquidi, che dissolvono il pensiero uniformandolo al tutto indistinto».
Il flusso di coscienza di H., che emerge dalla solitudine della sua auto-reclusione, è contaminato da influssi kafkiani (molti i riferimenti a La tana e La metamorfosi): ossessionato dalla pulizia e dall’ordine, incapace di accettare il proprio corpo, H. non appare come un semplice disadattato, un malato, un depresso; è invece sorprendentemente lucido, e il suo gesto rivoluzionario, pregnante ne fa un eremita contemporaneo.
Come tanti adolescenti H. è preda del dubbio e della rabbia, ma diversamente da molti altri è consapevole, sceglie una condizione e un punto di vista diversi, con una determinazione fortissima. Un muro separa la stanza di H., perfetta e intonsa, dallo spazio in cui vive la madre, un altrove in cui vive tutta una società, come lei, sconfitta, in cui l’amore è egoismo e possesso, in cui si vive schiavi delle apparenze. Tra loro s’insinua poi un altro personaggio: una ragazza conosciuta in chat, Rosebud, che è per H. una speranza e un monito.
Gli spettatori saranno così condotti lungo la vita di H., nei meandri della sua mente: seguendo un flashback lungo tutto lo spettacolo, esploreranno le ragioni e i pensieri di un asceta dei nostri tempi, che con il suo sguardo di bambino, senza disperazione ma con dignità, ha scelto di esprimere la propria sofferenza, sottraendosi e non arrendendosi.